Esistono persone che non possono guarire dalla propria sofferenza psicologica? No. Esistono delle persone biologicamente determinate a essere infelici? Nemmeno. Esistono ostacoli importanti al processo psicoterapeutico, tali da ostacolare il cambiamento e trattenere le persone in una condizione di sofferenza? Purtroppo sì. Certamente questi ostacoli possono essere rimossi e non sono insormontabili, ma per poterli spostare e fare spazio a qualcosa di diverso vanno innanzitutto identificati e in un secondo momento compresi nella loro funzione.
Le credenze nucleari
Le credenze in psicologia non sono nulla di diverso da quello che si intende per “credenze” nella lingua italiana. Sono cose in cui, appunto, crediamo. Cose che diamo per vedere con un alto grado di confidenza, cose di cui ci fidiamo. Parliamo di credenze nucleari quando queste convinzioni sono fondanti la nostra persona in termini di pensieri, emozioni e comportamenti. Alcuni esempi tipici di credenze nucleari che possono ostacolare il nostro benessere hanno a che fare con le difficoltà emotive e possono comprendere affermazioni quali “l’ansia è pericolosa”, “se sono triste diventerò depresso”, “la rabbia non va mai espressa” e così via. La ricerca e la pratica clinica hanno portato a identificare una serie di credenze, di convinzioni molto potenti, tipiche dei diversi disturbi psicologici. Ci sono poi delle credenze in qualche misura sopraelevate, qualcosa di più generale che comprende il funzionamento delle persone a prescindere dal disagio che stanno vivendo in quel momento. Una sorta di regole con cui tutti noi ci muoviamo nel mondo e che influenzano il modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri.
Non posso essere felice
Una credenze nucleare molto disfunzionale per il nostro benessere psicologico ha a che fare con la convinzione che nella felicità ci sia qualcosa che non va. Può prendere diverse forme e può essere più o meno esplicita, ma rende la felicità qualcosa di non auspicabile. Spesso una persona che si porta dietro questa credenza non la formulerebbe proprio in questo modo, ma attraverso modalità più indirette. Spesso questa credenza non emerge finché attraverso un percorso terapeutico non si arriva al cuore del sintomo. Spesso una persona può avere pensieri come “se soltanto mi passasse quest’ansia sarei felice” piuttosto che “se questa relazione andasse bene sarei felice” o “se riuscissi a cambiare lavoro sarei felice”. Bisogna arrivare a mettere in atto i cambiamenti auspicati e che si credevano cruciali per il raggiungimento della nostra felicità, per comprendere più da vicino che quelli che sembravano ostacoli enormi erano soltanto sassolini, e che tolti quelli resta qualcosa di molto più ingombrante che non ci consente di essere felici. Come dice Jonathan Haidt nel suo libro “Felicità: un’ipotesi”, “Ci sono diverse, multiformi “ipotesi di felicità”. Una vuole che la felicità scaturisca dal conseguimento di ciò che si vuole, ma tutti sappiamo (e le ricerche confermano) che quel genere di felicità ha vita breve.”
Vorrei stare meglio, ma allora perché sento che non posso essere felice?
Essere felice è da stupidi
Può succedere che la felicità sia scambiata per superficialità. Questa convinzione si ritrova soprattutto nel periodo dell’adolescenza, ma può permanere anche più avanti nel tempo, e ha a che fare con la credenza complementare secondo cui l’unico modo di essere profondi sia essere dolenti, secondo cui il dolore abbia qualcosa di intenso e vero che altre emozioni meno pesanti non hanno. Si crea così una sorta di culto della sofferenza, in cui le persone possono incastrarsi e restare invischiate, percependo sì la fatica di rimanere ancorate a modalità pensanti e grevi, ma contemporaneamente leggendo in questa sofferenza un valore personale superiore, una verità più profonda. In questo caso va da sé che gli sforzi della persona saranno tesi per una parte a ricercare una situazione di maggiore benessere psicologico, e per l’altra parte a non abbandonare quella gravità e quella pesantezza che il dolore garantisce, ma che facilmente sfocia in problematiche di tipo depressivo.
Tuttavia, essere felici non vuole necessariamente dire essere frivoli o superficiali, come non vuol dire non avere preoccupazioni e pensieri. Essere felice spesso significa aver imparato a ottimizzare le proprie possibilità e le proprie risorse, accettando quello che non è possibile modificare e impegnandosi per ottenere quello che sta nel nostro margine di miglioramento. A tal proposito, possiamo prendere in prestito le parole di Italo Calvino che diceva “Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”.
Essere felice è pericoloso
Se percepiamo il mondo come minaccioso impariamo a mettere le mani avanti, nel tentativo di anticipare possibili inconvenienti e disinnescare imprevisti prima del tempo. Iniziamo a vivere in un modo ansioso e preoccupato, andando con i nostri pensieri sempre un bel po’ in avanti, a volte addirittura ricorrendo a soluzioni precoci senza che il problema si sia neanche presentato. Rimuginiamo, troviamo piani B, ci muoviamo in una sorta di flow-chart nell’illusione che questo ci aiuti a essere sempre pronti davanti a ogni evenienza. Il problema è che la preoccupazione può diventare un’abitudine. Un’abitudine nociva, certo, come mangiare velocemente o mantenere una postura scorretta, ma pur sempre un’abitudine, e come sappiamo le abitudini implicite sono quelle più difficili da correggere. Nel funzionamento delle persone ansiose c’è spesso un doppio inganno: la percezione che le cose negative siano più probabili di quanto non sono in realtà e la convinzione che il fatto di preoccuparsi ne riduca la probabilità. Come a dire: penso che un evento negativo abbia il 70% di possibilità di verificarsi e penso che preoccuparmi riduca questa possibilità al 50%; magari l’evento di per sé ha una probabilità di occorrenza del 50%, ma l’errore di valutazione iniziale mi porta a percepire la preoccupazione come una strategia utile. In questo caso, i pazienti possono trovarsi di fronte a una forte dissonanza di fondo: da una parte preoccuparsi li fa stare male, perché può facilitare stati ansiosi e forme di somatizzazione, può ostacolare i rapporti interpersonali o non fare dormire la notte; dall’altra parte però sentono che abbandonare del tutto le proprie preoccupazioni e avvicinarsi così alla felicità potrebbe portarli a abbassare la guardia e non essere abbastanza prudenti, facendosi poi trovare impreparati davanti a un possibile imprevisto. Insomma, preoccuparsi è da ansiosi ma essere felici è da sprovveduti.
Essere felice non è giusto
Un’altra declinazione possibile ha a che fare con una questione quasi morale, per cui essere felici è una cosa non rispettosa di qualche forma di dolore o di difficoltà. Questa convinzione (solitamente molto implicita) si ritrova spesso in persone che hanno avuto esperienze prolungate di cari in una condizione cronica di malattia o difficoltà, per cui non si sono sentite mai legittimate a essere fino in fondo felici, per una sorta di obbligo alla condivisione del dolore di qualcun altro. Come posso essere felice se qualcuno di così importante per me (come la mamma o il compagno) è tanto infelice? In questo caso, l’infelicità mi tutela dalla possibilità di sentirmi profondamente in colpa e sbagliato, sottendendo una convinzione ancora più generalizzata che ha a che fare con l’idea che il mondo sia fondamentalmente un posto doloroso e infelice. Anche in questo caso, spesso si arriva a identificare questa credenza di fondo una volta che gli apparenti ostacoli alla felicità (come le condizioni esterne oppure i sintomi) sono stati rimossi, ma qualcosa continua a non andare.
Non so cosa c’è dopo la felicità
Infine, l’infelicità può essere diventata un’abitudine rassicurante. Questo è spesso il caso di persone che presentano sintomatologie croniche, che durano da diverso tempo e che resistono alle diverse forme di psicoterapia. I motivi possono essere diversi: per esempio, se guarisco e divento felice le persone intorno possono iniziare a pretendere delle cose da me; oppure, se esco da questa difficoltà e divento felice devo decidere attivamente cosa fare della mia vita, e la responsabilità è mia; ancora, se sono felice non ho più alibi, tocca a me, ho tutte le carte in regola per agire e un eventuale insuccesso sarà solo conseguenza di qualcosa che io sbaglio (e non qualcosa che non va in me, come un sintomo). La felicità, insomma, porta con sé delle responsabilità, e quella di autodeterminazione sembra essere quella più spaventosa.
Cosa fa la psicoterapia
Spesso, come dicevamo, la credenza sulla natura nociva della felicità emerge nel momento in cui i sintomi vengono affrontati, ma qualcosa continua a non andare. Questa credenza funziona insomma come una sorta di auto-sabotaggio, tale per cui la persona (spesso in modo del tutto inconsapevole) “sceglie” in qualche misura l’infelicità sotto forma di sintomi, relazioni disfunzionali, comportamenti nocivi, decisioni pericolose.
In questo caso, è importante che il percorso psicoterapeutico arrivi ad affrontare direttamente le credenze più specifiche che sottostanno a questo atteggiamento, guidando terapeuta e paziente a una scoperta condivisa di qual è il significato personale che il paziente dà della felicità e che la connota come qualcosa da evitare. Identificare i significati personali che ognuno attribuisce all’idea di felicità consente anche di comprendere meglio come farne esperienza e come rinforzare il suo uso: prendendo in prestito un titolo della Mogliasso, “la felicità è un muscolo volontario”: migliora con l’allenamento e per muoversi richiede una forte intenzionalità.