Ostacoli alla terapia: “non posso cambiare”
Il cambiamento è un motore potentissimo, che a livello individuale consente di progredire e a livello transgenerazionale ha permesso nel corso dei secoli l’evoluzione della specie. Questa entità che da una parte permette il progresso e dall’altra spaventa tanto, in realtà si può riassumere in un funzionamento molto semplice. Quello che funziona viene premiato e si mantiene, quello che non funziona non viene premiato, non ci porta benefici, e si estingue. Basti pensare a quello che accade all’interno di tutte le nostre relazioni: se facciamo una richiesta o poniamo un’osservazione e questa va a buon fine (produce cioè un cambiamento positivo), possiamo dire di avere imparato come si fa e possiamo pensare di utilizzare nuovamente questo espediente in futuro. Se davanti a una nostra richiesta o osservazione le cose non si modificano, o peggio ancora vanno di male in peggio, non chiederemo e non osserveremo più. Come dicevamo, squadra che vince non si cambia.
L’evoluzione interessa tutto e tutti, dall’uomo agli altri animali alle specie vegetali. Se tutti noi in potenza possiamo cambiare, alcuni di noi non si riconoscono questa abilità per svariati motivi, che vedremo tra poco. Perché questo tema interessa il processo terapeutico? Perché se da una parte la possibilità di cambiare e la flessibilità cognitiva propendono per una prognosi favorevole della patologia, dall’altra succede spesso che le persone siano spaventate dall’idea di cambiare, e addirittura a volte decidano di non intraprendere una psicoterapia, seppur in un momento di sofferenza, proprio per la paura di “essere cambiati” loro malgrado.
Proviamo a vedere cosa può succedere quando un funzionamento più o meno rigido si incontra con la necessità di cambiare.
Cambiare è impossibile
“Vorrei ma non posso” cambiare. Questa è forse la convinzione che più di tutte può ostacolare l’accesso a una forma di terapia, nel momento in cui tuttavia se ne avverte la necessità. Si sente che lo stato attuale delle cose non ci sta bene, ma allo stesso tempo si fatica a intravedere o anche solo ipotizzare uno stato alternativo. È una credenza tipica delle persone che hanno un umore abbassato, che sono tristi o addirittura depresse e fanno fatica a vedere scenari alternativi al disagio che provano in un determinato momento, la famosa luce in fondo al tunnel insomma. Va da sé che se faccio fatica addirittura a ipotizzare qualcosa di diverso, difficilmente intraprenderò un percorso impegnativo come una psicoterapia per cercare di stare meglio. In questi casi lo stato emotivo tipico è la rassegnazione, che spesso sopraggiunge prima che in realtà sia stato fatto qualche tentativo di fare andare diversamente le cose. Una sorta di rassegnazione preventiva, che sottende un forte senso di impotenza e di non avere abbastanza presa sulle proprie questioni personali e sul proprio funzionamento.
Non so come si fa a cambiare
Questa seconda convinzione lascia uno spiraglio di speranza perché non esclude la possibilità che un cambiamento possa avvenire. Certo, forse mancano le conoscenza specifiche di cosa vada cambiato e in che direzione, ma per questo si può richiedere aiuto. La difficoltà, in questo caso, potrebbe stare nella fiducia che è necessario riporre nella figura del terapeuta. Se ho intenzione di andare da qualche parte ma non so che strada intraprendere, dovrò avere prima il coraggio di chiedere e in secondo luogo di affidarmi a quello che mi viene indicato. Se la richiesta viene facilitata dalla speranza di una versione di me differente e meno sofferente rispetto a quella attuale, fidarmi delle strade che mi può indicare una persona a me estranea può essere complicato, anche perché le strade della psicoterapia implicano impegno e fatica.
Ho paura del cambiamento
Cambiare può spaventare. Possiamo arrivare alla consapevolezza che un cambiamento sia necessario, ma contemporaneamente temere le conseguenze di questa modifica. Spesso ci si rivolge a una terapia con questo atteggiamento comprensibilmente ambivalente, che recita all’incirca “così non sto bene, ma pensare a un’altra versione di me mi spaventa”. Così come sono le cose ci lasciano in un incrocio senza soluzione, perché a destra sono già andato e non ha funzionato e a sinistra ho paura di andare: spesso arriviamo quindi in una condizione di stallo, che se prolungata può portare con sé il senso di impotenza e l’umore abbassato di cui parlavamo sopra. In questo caso, spesso quello che serve è una piccola spinta per superare la paura e provare a esplorare modi diversi di fare le cose e aspetti diversi della propria persona che forse fino a quel momento non erano stati approfonditi a sufficienza.
Non voglio cambiare
Il questo caso l’ambivalenza aumenta ulteriormente: si tratta di quelle situazioni in cui la persona vorrebbe che si modificasse qualche aspetto della propria vita (sintomi, modalità relazionali, comportamenti che la fanno soffrire), ma pone il veto sulla possibilità di cambiare in prima persona. Difficilmente questa condizione si riscontra alle prime battute di un percorso: inizialmente una persona si rivolge a un professionista per qualcosa che in quel momento la fa soffrire, ma in un secondo momento può capitare che emergano quelli che si chiamano “benefici secondari” del sintomo, cioè quegli effetti secondari funzionali che vanno a braccetto con la sofferenza, ma che garantiscono anche qualche beneficio. È il caso per esempio di sintomi fastidiosi e invalidanti, che tuttavia avvicinano le persone care che diventano accudenti: da una parte il sintomo mi porta a delle limitazioni, dall’altra però potrei accorgermi che abbandonare il sintomo può significare anche avere meno vicinanza da parte degli altri, e questo può non starmi bene. Un’altra casistica ancora si ha quando mi è chiara la direzione che sarebbe utile prendere per stare meglio, ma questa non mi trova d’accordo per i motivi più svariati. Per esempio, so che mantenere una relazione in cui non c’è più alcun sentimento positivo non ha senso, ma allo stesso tempo non me la sento di lasciare l’altro perché so che le persone penserebbero male di me, oppure ancora perché sento che da sola sarei persa. Si tratta, insomma, di bilanci decisionali, in cui a volte perseguire il proprio benessere richiede anche delle rinunce e l’assunzione di rischi.
Il lato positivo è che la possibilità di cambiare non è preclusa a nessuno. Certo, fare un salto più o meno grande richiede un po’ di coraggio e di fiducia in quello che potrebbe essere, insieme alla convinzione di poterne sostenere le conseguenze. Oppure, alle volte, semplicemente la constatazione che così come sono le cose non sono sostenibili nel lungo termine e che quindi un cambiamento non è solo auspicabile, ma addirittura necessario.